Tutto “a Poste”, ero solo un CTD
L’Italia è una Repubblica fondata sul precariato. Dovrebbe essere così modificato il primo articolo della Costituzione italiana perché quello originale appare anacronistico anche in relazione al mondo della mastodontica Poste Italiane.
Chi scrive viene da un’esperienza di 11 mesi e 10 giorni da portalettere e lo fa – al di là dello stile narrativo che può piacere o meno – con cognizione di causa.
Un percorso iniziato per caso e in maniera quasi improvvisa perché dopo la bolla del covid che aveva interrotto un’esperienza lavorativa di ben nove anni in tutt’altro settore, mi ero ritrovato a navigare tra link e curriculum da inviare compilando form in maniera alienante, fino ad inviare un’autocandidatura sul sito di poste italiane.
Tutto avrei pensato meno che trovarmi entro pochi mesi per strada a consegnare pacchi e raccomandate ma così è stato perché nella consultazione periodica del sito per verificare eventuali offerte lavorative, mi imbatto nella “call” per portalettere. Un ipotetico contratto a tre mesi rinnovabile almeno da valutare.
E così poche settimane dopo aver compilato l’ennesima domanda mi ritrovo a svolgere test di logica e, in meno di tre settimane ad essere convocato a Reggio Calabria per la prova motomezzo. Tre ore di treno per un giro in motorino di due minuti e poi subito il colloquio con le risorse umane.
Singolare l’approccio della dirigente che visualizzando il mio curriculum mi chiede: “E lei con una laurea viene a fare il colloquio per portalettere?”. “Siamo in Italia, cosa si aspettava”, avrei dovuto rispondere, invece me ne esco con un più diplomatico e brillante “se ha qualche altra proposta sono disponibile a valutarla”.
Invece il passaggio successivo è la spiegazione dell’orario di lavoro di 36 ore settimanali su 6 giorni, della retribuzione media salvo straordinari e la proposta a bruciapelo di iniziare il 21.
Eravamo a metà novembre e la mia risposta è stata: “ok, anche se è a ridosso delle festività natalizie”, peccato che non avevo capito che si trattasse del 21 novembre.
Accetto e da lì a pochi giorni avrei dovuto produrre alcuni documenti e tornare a Reggio Calabria per firmare il contratto. Il 21 novembre inizio a lavorare. Due giorni di formazione on line e giorno 23 sono al centro di smistamento di San Nicola Arcella, praticamente sotto casa, con contratto fino al 31 gennaio.
Non me ne ero ancora reso conto ma ero diventato un CTD, una specie umanoide metà uomo e metà postino.
CTD: COME TE LO DICO
Già il fatto che venga utilizzato un acronimo che descrive la natura del contratto per riferirsi a dei lavoratori è un fattore che lascia riflettere, ma nell’epoca della velocità imposta a qualsiasi tipo di processo diciamo che ci può stare e, tutto sommato, è il male minore.
Quello che proprio stride invece con i principi della Costituzione e la schiera enorme dei CTD e l’utilizzo che se ne fa. Internet è pieno di link alle call per portalettere a tempo determinato così come lo sono le graduatorie che, in un’azienda che cerca personale per tre mesi rinnovabili, dovrebbero scorrere con una certa rapidità.
Invece si assiste da anni a contratti che durano il tempo di apprendere come lavorare per poi concludersi con un grazie e arrivederci senza tenere conto del valore della singola risorsa, del curriculum, dei risultati realizzati, ma questo lo avrei capito solo col tempo perché per il momento ero alle prese con un nuovo lavoro di cui non sapevo niente e che, al di là di quello che si possa pensare, ha le sue logiche, le sue dinamiche e anche le sue difficoltà.
E qui è doverosa una divagazione per sdoganare un luogo comune sul lavoro del postino che è tutt’altro che semplice e banale perché innanzitutto si tratta di un lavoro di responsabilità. Atti giudiziari, raccomandate, posta prioritaria e la mole di pacchi soprattutto in determinati periodi, fanno del lavoro del portalettere un impiego ben lontano da quello che si crede banalizzandolo.
In più c’è la responsabilità del mezzo che si guida almeno quattro ore al giorno in qualsiasi condizione atmosferica, della sicurezza personale, degli altri automobilisti e dei pedoni.
Infine c’è la responsabilità degli oggetti che non vengono consegnati che vanno smistati nella maniera corretta al rientro, oltre a timbrature nei range orari e, soprattutto la capacità, come in ogni ambito di lavoro, di creare rapporti cordiali, sani e collaborativi con i colleghi e con la clientela.
Dall’altra parte c’è però una scarsa – o almeno così è stata avvertita da chi scrive – propensione a valutare la risorsa perché pare che davvero non ci sia nessuno che si chiede chi siano quei CTD che stanno lavorando con contratto a termine, cosa abbiano fatto prima di arrivare in Poste piuttosto che quale sia la loro aspirazione, magari con l’idea di evitare di perdere una risorsa utile per altre posizioni rispetto a quella di portalettere.
Eppure un’azienda dovrebbe cercare di massimizzare sotto tutti i punti di vista, invece vale la regola del “tutti sono utili e nessuno è indispensabile” spesso associata ad un’altra regola non scritta: “i CTD devono essere utilizzati al massimo, tanto faranno di tutto per ottenere i rinnovi e arrivare ai 12 mesi” e pazienza se qualcuno mollerà per il peso dello stress o se non arriverà ai fatidici 365 giorni.
Questo è un controsenso di non poco conto per un’azienda mastodontica che, a ragione di tale enormità, vede e potrebbe valutare migliaia di risorse umane e magari fare di tutto per trattenere le più valide.
PREGIUDIZI E ASPETTATIVE
Se ero entrato in posta con una certa riserva sul ruolo che avrei ricoperto, tutt’altro che in linea con il mio background, c’era però da valutare alcuni innegabili vantaggi. Il primo era che finite le tue ore e chiusa la tua lavorazione non ti portavi il lavoro a casa. Inoltre rimaneva abbastanza tempo libero per dedicarsi alla famiglia e ad altri impegni e, per quanto mi riguarda, si stava in giro guidando una macchina o un furgone cosa che non mi dispiaceva in compagnia di sé stessi e con un contatto quotidiano con la clientela che seppur fugace, alla lunga, avrebbe creato anche rapporti cordiali.
Eppure dopo pochi giorni mi resi conto che la mia presenza nel centro di San Nicola Arcella aveva creato qualche squilibrio tanto che improvvisamente fui convocato dal direttore che mi chiese uno stranissimo e sibillino “perché sei qui” dal quale caddi da una nuvola che si sfalda improvvisamente come nei cartoni animati.
Quella frase non mi è stata mai spiegata nel dettaglio ma da quel colloquio ho capito che qualcuno in quel centro non gradiva la mia presenza. Ero il marito di una farmacista e forse per qualcuno non avevo necessità di lavorare come postino. Ero il presidente del consiglio comunale di Scalea perché mai dovevo stare li. Ed infine avevo fatto il giornalista fino all’altro ieri cosa c’entravo con quell’ambiente?
Per quanto mi riguardava ero soltanto un “ragazzo” di 42 anni rimasto senza lavoro dopo il covid che preferiva lavorare come postino e provare a ricostruirsi una strada piuttosto che dare una mano alla moglie in farmacia – che comunque ne aveva bisogno – o pensare di cercare fortuna altrove e compromettere la stabilità di una famiglia con due figlie piccole.
Ma come dico spesso “quello che pensano gli altri su di me non è un problema mio” e sono andati avanti per la mia strada con il mio impegno quotidiano, la serietà sul lavoro in un ambiente per il 90% collaborativo e cordiale che alla lunga mi ha portato soddisfazioni personali soprattutto in relazione ai clienti che alla notizia della scadenza del contratto hanno dimostrato tutto il loro disappunto.
Perché un altro aspetto probabilmente non tenuto nella debita considerazione è il disagio della clientela che vede nel postino una figura di riferimento.
In paesi e zone periferiche dove la toponomastica è un optional e dove spesso sui citofoni non esiste nominativo e le cassette della posta sono poche, malmesse e, ovviamente senza nome, consegnare la posta diventa un’esperienza quasi mistica. Un misto tra conoscenza personale, richiesta costante di auto a passanti e vicini e, soprattutto, tentativo di soddisfare le richieste di chi vuole che la posta gli venga consegnata al negozio, piuttosto che a casa della suocera che magari abita in un’altra zona o addirittura in un altro paese.
Tutte prassi che necessitano di tempo per essere memorizzate che però aiutano ad instaurare un rapporto di fiducia con la clientela la quale poi si trova, a scadenza del contratto del CTD, a dover ripetere la prassi con il nuovo postino.
E’ stato poi veramente esilarante incontrare persone per strada che vedendomi scendere dal furgone delle poste con pacchi e pacchetti mi guardavano come se avessero visto un alieno a conferma che la maggior parte delle persone vive in un mondo mentalmente statico e, soprattutto, molti piuttosto che pensare a cosa fare della propria vita, intrattengono lunghe e inutili conversazioni con sé stessi e con gli i propri amici sulla vita degli altri azzardando ipotesi fantasiose che in un paese di 10mila anime, vuoi o non vuoi, arrivano all’orecchio del diretto interessato che, nel mio caso, si fa una sana, grassa risata e va avanti, soprattutto pensando a cosa si inventeranno non vedendomi più in questa insolita veste alla quale oramai tutti avevano fatto l’abitudine.
OBIETTIVO 365
Intanto, tra una giornata sotto la pioggia, una nuova “zona” da imparare e tanti pacchi e raccomandate scarrozzate per il territorio, era arrivato il primo rinnovo fino alla fine di aprile e poi un successivo per 5 mesi fino a fine settembre.
In questo periodo di “precariato rinnovato” io e gli altri CTD avevamo capito come funzionava. Più giorni lavori, più possibilità hai di entrare in graduatoria in una posizione utile ma non supererai mai i 365 giorni perché in tal caso scatterebbe l’obbligo da parte dell’azienda di assumerti a tempo indeterminato.
In quei mesi realizzai che non avrei mai potuto raggiungere i 365 giorni. Aver iniziato il 21 novembre era oltremodo penalizzante e anche l’ultimo rinnovo per un solo mese, fino al 31 ottobre, mi avrebbe portato a raggiungere “soltanto” 11 mesi e 10 giorni.
Entrare a tempo indeterminato potrebbe aprire altre possibilità come quella di candidarsi per altre posizioni interne all’azienda ma al di là di tutto resta, per quanto mi riguarda, un’esperienza formativa di altissimo valore, soprattutto per il clima di collaborazione che ho potuto vivere nel centro di distribuzione che ho frequentato quotidianamente per quasi un anno.
Ora, con la scadenza del contratto mio e di altri colleghi, nel centro si riproporranno gli stessi problemi di 11 mesi fa e i titolari dovranno formare altre risorse che saranno chiamate per 3,5,12 mesi in un circolo poco virtuoso di precariato. Ma come dicevamo più su “tutti sono utili e nessuno è indispensabile” per cui…
In verità c’è da dire anche che l’assioma non rappresenta proprio una regola aurea. Ci sono CTD che proprio in virtù di esse se ne infischiamo del rinnovo vivendo alla giornata, altri che lavorano con serietà e disponibilità pensando che meglio lavori più possibilità hai di rinnovo, c’è qualcuno con le cosiddette spalle coperte dalle relazioni personali, dalle tessere sindacali, dalle spinte e spintarelle tutte italiane che mortificano il merito per la logica “dell’amico dell’amico”, cosi come ci sono lavoratori con contratto a tempo indeterminato stanchi e demotivati, che vivono il lavoro esasperando il concetto di “diritto e doveri” diventando in alcuni casi di contrasto al buon funzionamento dei centri focalizzati esclusivamente sui propri interessi con buona pace del resto.
Situazioni che dovrebbero essere gestite dai vertici non solo con capacità manageriali e ponendo l’accento sugli obiettivi ma con empatia e doti di leadership che si acquisiscono nel tempo e con adeguata formazione ma che lasciano spazio ad un tira a campà tutti italiano che finisce per poggiare il peso di un intera sistema sulle spalle della massa di precari, carne da macello da mandare per le strade e nelle case dei clienti, anche questi in qualche modo vittime del turn over esasperato, sperando che siano capaci, responsabili e che non diano troppo fastidio reclamando diritti e trattamenti “umani” oltreché da “risorse”.
E ADESSO CHE FARAI?
Me lo hanno chiesto molti carissimi clienti che ho servito per circa un anno. “Tante cose” rispondevo io perché anche nella Repubblica del precariato rimane fermo solo chi non si muove. Intanto c’è da lavorare sempre su sé stessi e i prossimi mesi saranno utili per investire tempo e qualche soldino sulla formazione personale. In più ci sono attività familiari da mandare avanti e da far partire, le bambine da seguire e con le quali potrò passare qualche ora in più oltre all’impegno politico e amministrativo al quale, nonostante l’impegno lavorativo, sono comunque riuscito a tenere fede dedicando tempo ed energie in orari impensabili.
E poi c’è la vita con la sua affascinante capacità di sorprenderti quando meno te lo aspetti, basta andarle incontro sorridendo, con ottimismo e dando il massimo in qualsiasi situazione, al di là di acronimi, pregiudizi e di qualche incomprensione con sé stesso e con gli altri che la rendono si più complicata ma assolutamente interessante.