Egidio Bruno detto “Gigginill”
Ad agosto saranno dieci anni dalla dipartita di mio nonno e avevo pensato di riproporre in quell’occasione un vecchio articolo scritto dopo la sua morte e pubblicato sul mensile cittadino “L’Olmo”. Poi ho pensato che vista la situazione attuale, le restrizioni dovute all’emergenza Covid, e soprattutto il fatto che nell’immaginario collettivo cittadino, tra i tanti ruoli rivestiti, quello del cantore dei canti della Passione è quello per il quale viene ricordato, ho deciso di pubblicare oggi questo ricordo. Proprio qualche giorno fa mio padre mi ha informato di aver trovato quella copia del giornale cittadino sul quale è pubblicato. Un motivo in più per riproporlo.
Dillo ad un ragazzo di vent’anni “vai a Verbicaro a piedi per lavorare”. Ti fa una risata in faccia e continua a “passià a chiazza”. Mio nonno l’ha fatto. Quando il lavoro non era uno favore da chiedere ma il dovere verso la famiglia, mio nonno tagliava cedri, andava a pescare, faceva il portiere delle squadre di calcio, e – ormai si può dire, anche perché è più dignitoso di tanti lavori da scrivania che nascondono comportamenti illeciti – faceva il contrabbandiere in tempi di guerra.
Dei suoi racconti mi ricordo queste storie, le storie del lavoro, del sudore, delle uscite di notte per iniziare la giornata prima degli altri ed essere un passo avanti, competitivo si direbbe oggi. La sua enfasi, guascone com’era, ha segnato quei racconti nella mia mente, così come le facce e i nomi di persone che i più anziani affidavano a lui affinché li aiutasse a guadagnarsi da vivere.
Ha viaggiato sotto le carrozze dei treni aggrappato all’intelaiatura delle carovane, ha suonato le campane in Val D’Aosta. Come dimenticarlo, come pensare che un racconto, seppur in parte romanzato come amano fare i nonni, possa non lasciare traccia. Con la moglie, la suocera e i due figli viveva in un’unica stanza vicino la chiesetta di San Giuseppe. E’ grazie ai suoi viaggi, alle sue mille peripezie, anche alla sua incoscienza dettata dal bisogno se oggi la mia famiglia, non senza i propri sacrifici, gode di una vita abbastanza agiata o comunque lontana anni luce da quel punto di partenza in bianco e nero.
Di mio nonno, sia mio padre che noi nipoti, abbiamo sicuramente ereditato la forza d’animo, la capacità di reagire di fronte a ciò che la vita ci riserva e che, per forza di cose, non può essere sempre positivo, il coraggio, se mi si consente per un attimo di essere romanzesco come lo era lui nei suoi racconti. Quello che forse manca un po’ a tutti i suoi eredi è la capacità nei mestieri, l’ingegno.
Buon sarto, si era cucito una tasca interna ai pantaloni che usava quando giocava come portiere, perché “i cing’ lir’ m’ana dà quann’ mi sciacq’ a faccia”. E mi raccontava che quando il campo sportivo era dove adesso c’è l’hotel dei Focesi, la domenica la discesa del ponte si riempiva di un fiume di gente che si incamminava per andare a vedere la partita.
I racconti del calcio erano quelli che più piacevano ad entrambi. Io, bambino innamorato del pallone, mi incantavo e lui proprio, per questo, non smetteva di dar fondo ai ricordi con l’orgoglio che gli gonfiava il petto. A quei tempi non esistevano i tesseramenti e si poteva giocare ogni domenica per una squadra diversa, ovviamente quella che ti offriva più soldi. E così non era raro che le squadre della zona si contendessero le prestazioni del gigante diamantese. Dei “fatti” del pallone uno mi è rimasto impressionato nella memoria che non è propriamente legato alle gesta sportive (anche se molti mi hanno detto che tra i pali, dopo Musolino, non ce n’erano) .
Prima di una gara si trovava a tavola con Fausto Caselli e Amleto Bartalotta. All’arrivo del cameriere i due commensali, decisamente di famiglia benestante rispetto a lui, ordinano un brodino e dell’acqua. Uno sguardo di disappunto e poi la richiesta senza esitazioni: “tre alici, una mezza testa di cipolla e un quarto di vino”. Sbigottiti i due compagni di squadra non fanno neanche in tempo a protestare che lui li fulmina: “Vui stasera alla casa truvat’ u piatt’…Ji nun’ u sacc. Mo mi vai a curcà, chiamatemi fra na mezz’oretta e jam a jocà”.
Di famiglia modesta era sempre insieme a gente più agiata di lui, come nel gruppo della passione. Era lui, e lo ha fatto finché ha avuto la forza fisica di seguire la processione, a “portarla” nel suo gruppo. Mi ricordo le smorfie, gli sguardi che volgeva alla statua dell’Addolorata e quei gesti con le mani per richiamare la vocale in fine di parola, e di come si illuminava quando noi nipoti gli chiedevamo che cosa significano quei segnali.
“Se ne va un pezzo di storia di Diamante” hanno detto in molti, per me, che dagli anni dell’università in avanti l’ho vissuto poco, se ne va un uomo buono, un gran lavoratore che si nascondeva dietro la maschera del burbero.
Egidio Bruno, detto Gigginill’, si è spento il 21 agosto scorso (2010) a 92 anni dopo aver fatto più di quello che doveva. Non mi stupirei se un ragazzo di vent’anni, leggendo questa breve e sicuramente incompleta descrizione della sua vita, farebbe fatica a credere che sia tutto vero.