Maradona, il fuoriclasse che non fui mai campione
Prima di meritarmi gli improperi di chi ha idolatrato il grandissimo calciatore che è stato Maradona voglio chiarire una cosa: non giudico l’uomo, per quanto protagonista di vicissitudini discusse e discutibili. Le fragilità, secondo me, non c’entrano con il talento che resta incontestabile e unico. Non lo intaccano né, allo stesso tempo, devono aumentare l’alone di miticità. Ognuno è unico motivo per il quale non propongo e non accetto paragoni tra il “dies” argentino e qualsiasi altro fuoriclasse che abbia calcato i campi di calcio e che si sia meritato un posto di rilievo nell’immaginario collettivo degli appassionati di qualsiasi epoca. Tanti e tali sono i motivi di apprezzamento che ciascuno può addurre al suo gradimento per chicchessia che nessuno credo possa essere supremo rispetto ad un altro. Non è un caso infatti se, a dispetto della fede, ci sono persone innamorati calcisticamente di giocatori di altre società o se, come nel caso di Maradona, esistono fuoriclasse che, sotto il profilo tecnico, mettono tutti d’accordo.
Maradona – e questo è un dato di fatto – ha fatto parlare di sé tanto per le sue doti calcistiche, per le sue prodezze tecniche, quanto per le vicende personali ed è per questo che mi permetto di definirlo fuoriclasse e non campione nonostante con la doppietta all’Inghilterra nei quarti di finale di Messico ‘86 (la mano de dios e il gol più bello della storia), abbia regalato all’Albiceleste il pass per conquistare la coppa del Mondo.
Maradona per me è un fuoriclasse nel senso più ampio del termine. Un calciatore con una classe fuori dal comune ma anche uno che scolasticamente avrebbe meritato di essere sbattuto fuori. Chiunque al suo posto non avrebbe meritato di giocare in squadre importanti e in competizioni di livello perché, per sua stessa ammissione, l’uso di droga e alcool è stato fin dal 1982 a Barcellona un vizio. Eppure Diego ha resistito, dimostrando anche un’attitudine fisica e una forza di volontà fuori dal comune messe più volte a dura prova quando, spinto dal desiderio di rivalsa, si decideva ad espellere le sostanze di cui si faceva. Motivi che hanno contribuito a costruire il misticismo e anche una sorta di feticismo attorno alla sua figura ma che, allo stesso tempo, hanno fatto pensare più di una volta a cosa avrebbe potuto raggiungere se fosse stato un campione anche fuori dal campo.
Non è retorica moralistica ma constatazione chiara. Uno come Maradona nel calcio moderno sarebbe stato messo ai margini senza seconde o terze possibilità e, qualora le avesse avute, le sue intemperanze caratteriali e autolesioniste lo avrebbero sicuramente messo in difficoltà maggiori anche sul lato agonistico perché, diciamoci la verità, la preparazione fisica e atletica media dei calciatori moderni è dieci volte superiore a quella delle facce e dei fisici delle figurine Panini degli anni 80 e 90.
Maradona fuoriclasse di un calcio diverso, di una società diversa, di un professionismo meno esasperato e non per questo meno inondato di denari e di interessi collaterali ma non campione, non nel senso che si può attribuire ad un Baresi, del quale lo stesso Diego aveva stima immensa e ammirazione, di un Baggio, di un Totti, di un Del Piero o per restare in Argentina di un Batistuta o di uno come Zanetti. Il campione, il capitano in modo particolare è la guida che dà l’esempio e se è vero che Maradona è stato uno dei pochi nella storia del calcio a poter vincere le partite da solo è vero altrettanto che se i suoi compagni avessero seguito il suo stile di vita la storia del Napoli non sarebbe stata la stessa.
La parabola calcistica di Maradona è stata una favola senza lieto fine che poteva verificarsi soltanto nelle condizioni storiche in cui si è verificata e, soprattutto nella città dove si è consacrata. E’ stata un’alchimia quasi perfetta dove finanche gli eccessi sono passati in secondo piano e sarebbero stati dimenticati se ad un certo punto della storia il fuoriclasse avesse trovato la strada della redenzione per diventare campione.
Anche il suo rapporto con Fidel Castro può essere letto come la ricerca di un padre, una guida, da parte di una persona dall’animo fragile e dannato che soltanto col pallone tra i piedi trovava l’ispirazione per elevarsi ad un livello dove nessuno avrebbe potuto raggiungerlo. In campo era un dio e nonostante i calci ricevuti è stato sempre anche molto corretto mentre fuori non riusciva a domare il diavolo che gli bruciava dentro. Eppure quella sua intervista a dieci anni quando con una lucidità disarmante affermava che il suo sogno era giocare il mondiale e diventare campione faceva presagire una carriera fulgida e un riscatto totale dalla condizione di miseria.
Purtroppo questo non è stato e la sua morte è arrivata a seguito di un percorso di vita sregolato durante il quale ha avuto la capacità di sfruttare il suo talento per diventare immortale, simbolo di riscatto per molti ma non per se stesso.
Nel 1986, quando incantava il mondo intero in Messico io avevo 5 anni e mezzo. Avrei iniziato a vederlo giocare dopo qualche anno nutrendo da tifoso milanista un odio agonistico che col tempo si è trasformato in ammirazione perché davanti ad un’opera d’arte la bellezza diventa oggettiva. La sua parabola da calciatore si è scontrata frantumandosi in mille pezzi con quella personale al mondiale americano dopo averci soffiato da sotto al naso la possibilità di coronare le “notti magiche” quattro anni prima. Anche ad Usa 94 ho provato un senso di rabbia nei suoi confronti. In particolare quando dopo il gol magistrale segnato contro la Nigeria aveva esultato contro la telecamera con uno sguardo spiritato. Contro chi combatteva Maradona? Forse contro un sistema, forse contro Havelange o forse soltanto contro se stesso.
Il resto è parabola discendente. Esperienze in panchina, dichiarazioni e atteggiamenti sempre sopra le righe a confermare un tentativo di trovare una strada, una serenità che mai forse ha assaporato pienamente neanche quando, per tutti e di fronte a tutti ha rappresentato il più forte giocatore del mondo, uno dei più talentuosi di tutti i tempi, un fuoriclasse eccezionale ma non un campione, almeno per come la intendo io che però conservo come un cimelio una maglia di lana a maniche lunghe col numero dieci ricamato sulla schiena e la scritta Mars sul petto.
Condivido completamente la Tua lucida e spietata analisi.
Tu milanista, io romanista.